L’altra Marilyn


Era il 5 agosto del 1962, quando una notizia rimbalzò nelle case di tutto il mondo: Marilyn Monroe si era tolta la vita. Una morte misteriosa a conclusione di una vita tutt’altro che facile. Ma chi era veramente l’attrice icona della Hollywood Anni ’50, scomparsa a soli 36 anni?

Soffriva di balbuzie, che si aggravava quando era sottoposta ad un forte stress, e di incubi notturni ricorrenti. Il suo più grande terrore era quello di finire in un ospedale psichiatrico come era accaduto a sua madre, e a sua nonna prima di lei.
Dalle cartelle cliniche ne usciva una diagnosi impietosa: paranoide con tratti schizofrenici. La “divina Marilyn”, quella che tutti ammiravano e invidiavano, era in realtà una donna psichicamente fragile ed “emotivamente instabile” che, nel corso della sua vita, passò alternativamente dalla terapia psicanalitica all’assunzione di psicofarmaci al ricovero in manicomio con tanto di camicia di forza.
Del dramma interiore vissuto dalla Monroe e del suo risvolto clinico, ne parliamo con lo psicologo Luciano Mecacci, già docente di Psicologia alla Sapienza di Roma e all’Università di Firenze, autore del libro di successo Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicoanalisi (Laterza, 2000), tradotto in inglese, russo e tedesco.

Attori, registi produttori cinematografici, molti protagonisti della Hollywood “che conta” negli anni del dopoguerra si sottopongono a psicoanalisi. Tra tutti, Lei ha scelto di analizzare il “caso di Marilyn”. Perché?
Il primo motivo è perché della vita e della personalità di Marilyn sappiamo moltissimo. Su di lei vi sono moltissimi documentari, libri e siti su internet. Così possiamo fare un riscontro tra le descrizioni degli psicoanalisti e le persone che vissero a fianco di Marilyn come mariti, amici, cameriere, professionisti e tecnici del cinema. Spesso questo confronto mette in evidenza uno scarto notevole tra la raffigurazione che è data dallo psicoanalista e il personaggio della vita reale. Nel chiuso dello studio psicoanalitico Marilyn può essere apparsa fragile e complessata (per Anna Freud, la figlia del fondatore della psicoanalisi, era al limite della schizofrenia), ma non si è tenuto conto della sua grande padronanza artistica, del suo successo nella vita professionale. Il punto critico che ho sollevato nel mio libro è l’assenza, tipica dei casi clinici psicoanalitici, di un riferimento alla vita “reale” dei pazienti.

Cinque analisti attraversano la vita dell’attrice, tra questi c’è appunto anche Anna Freud. Un rapporto, tra le due donne, che non è durato a lungo…
Sì, per poche sedute, durante le riprese del film Il principe e la ballerina a Londra nel 1956. Marilyn fu molto colpita da questo incontro. Certo, due donne agli antipodi: per l‘avvenenza fisica, per il retroterra famigliare e sociale, per il livello culturale, per non parlare poi della sfera sessuale e passionale. Spesso mi sono chiesto come uno psicologo possa veramente entrare in sintonia con una paziente così eccezionale come Marilyn.

Non solo terapia analitica ma anche psicofarmaci in dosi massicce. L’uso incondizionato di tranquillanti  – che spesso trascinano Marilyn in gravi stati confusionali, tanto da essere ricoverata a più riprese in strutture psichiatriche – è il fallimento della terapia verbale o un modo di tenere sotto controllo una donna “scomoda” per molti?
L’uso degli psicofarmaci rispondeva in primo luogo all’esigenza di superare in tempi rapidi le crisi che Marilyn subiva e che le impedivano di mantenere fede ai suoi impegni lavorativi con gravi ricadute organizzative e finanziarie sulle case produttrici dei suoi film. Poiché la psicoanalisi si fonda su un programma terapeutico di lunga durata, costante nel tempo, questa cura non si addiceva a un personaggio burrascoso come Marilyn. Che poi gli psicofarmaci abbiano avuto anche un’altra funzione, quella di “sedare” una donna che forse sapeva troppo dei rapporti tra la famiglia Kennedy, la mafia e i servizi segreti, in effetti questa è un’ipotesi avanzata da vari biografi dell’attrice.

Cari Lee e Paula, sono stata chiusa con queste povere persone pazze. Sono sicura di diventare pazza anch’io se rimango in questo incubo. Sono al piano dei pericolosi. È come in una cella…

In una lettera a Ralph Greenson, diventato poi il suo analista, la Monroe descrive le violenze psico-fisiche a cui è stata sottoposta in uno dei suoi ricoveri e sottolinea come i medici non vedessero nei pazienti “degli esseri umani sofferenti”. Secondo Lei, tra i cinque terapeuti che l’hanno tenuta in cura, invece, c’è stato qualcuno che si è interessato realmente al suo benessere psichico?
Purtroppo direi di no, perlomeno sulla base dei documenti disponibili. Si ha sempre l’impressione che anche per i suoi psicoanalisti Marilyn rappresentasse un’icona, un mito, piuttosto che una persona sofferente. Ho trovato più umano l’atteggiamento di Joe Di Maggio, anche quando non era più suo marito, ma era sempre pronto a darle una mano. Fu lui ad accorrere subito per portarla via dalla clinica psichiatrica (ed allora non erano bei posti neppure a New York) dove l’aveva fatta ricoverare la psicoanalista del momento, incapace di gestire la sua “difficile” paziente.

5 agosto 1962; intorno alla casa di Marilyn si avvicendano una serie di personaggi: noti, meno noti, in incognito… Le ipotesi sulla sua fine ancora oggi si alternano: suicidio, omicidio… Secondo Lei si riuscirà a raggiungere la verità sulla morte della Monroe?
La morte di Marilyn si situa in una fase della storia degli Stati Uniti segnata dai successivi omicidi di John F. Kennedy e del fratello Robert. Più si scava sui moventi e sui personaggi implicati nella eliminazione dei Kennedy, sempre più plausibile diviene l’ipotesi che la fine di Marilyn vada inquadrata in quello scenario. Le ricerche più recenti, fondate su nuove testimonianze e prove, tendono a confermare la pista dell’omicidio: vi era il pericolo che Marilyn svelasse alcune informazioni molto compromettenti sui retroscena della politica dei Kennedy. In questo senso Marilyn, più che un caso clinico per gli psicologi e gli psicoanalisti, rappresenta un pezzo di storia del secondo Novecento, e sotto questo aspetto merita ancora di essere studiata per capire cosa nascondesse quel sorriso malizioso.

 

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